(di Manuela Tulli)
La scala è un po' buia e ancora oggi
nascosta da una porta. Eppure quegli scalini furono la salvezza
per una cinquantina di ebrei di Roma perseguitati dai nazisti
durante la seconda guerra mondiale. Nella parrocchia di Santa
Maria in Portico in Campitelli, a due passi dalla centrale
piazza Venezia, all'epoca dei fatti il quartier generale di
Benito Mussolini, sono diverse le famiglie ebree che trovarono
riparo. L'ingresso nei locali della chiesa era possibile non
solo dal sagrato in piazza Campitelli ma anche da un anonimo
portone che partiva dal Portico d'Ottavia, il cuore dal ghetto
di Roma.
"Di lì si saliva e si arrivava direttamente in sagrestia",
racconta il parroco, padre Davide Carbonaro. Un ambiente
abbastanza spazioso per accogliere diverse famiglie, e che oggi
è la Sala Baldini dedicata agli incontri, anche quelli sul
dialogo ebraico-cristiano. "Mi emoziona ogni volta pensare che
qui è anche nata una bambina", riferisce don Davide.
Era l'inverno del '43 e quella scaletta consentiva agli ebrei
di mantenere per quanto possibile una vita normale. "Il giorno
scendevano nel quartiere e lavoravano nelle loro botteghe,
almeno fino a quando è stato possibile, poi la sera, quando la
situazione era più pericolosa salivano per la scala verso la
sagrestia". In chiesa gli uomini vestivano i sai dei chierici
dell'Ordine della Madre di Dio, la congregazione alla quale è
tuttora affidata la parrocchia. Le donne potevano confondersi
più facilmente. Alcuni trovarono riparo anche nello studentato
dell'Ordine, altri perfino nella cassa armonica del grande
organo e nelle cantorie, quegli spazi delle chiese riservati ai
cantori e spesso lontani da sguardi sospettosi.
La piccola comunità ebraica in quei mesi imparò un minino di
preghiere cattoliche, come l'Ave Maria o il Padre Nostro, perché
dovevano essere in grado di recitarle in caso di incursione dei
nazisti nei locali della chiesa.
Non c'è un preciso censimento delle persone che furono
salvate a Campitelli. "In quei giorni non si conservava memoria
scritta di quanto stava accadendo - spiega il parroco - per
motivi di sicurezza. Ma qualcuno negli anni è tornato per
ringraziarci".
Il Rettore Generale di allora, padre Giuseppe Forcellati,
rischiò di essere deportato insieme alla Comunità religiosa. In
seguito, nel 1955, le Comunità ebraiche d'Italia offrirono al
religioso un riconoscimento. Agli inizi degli anni '90 la prima
giornata del dialogo ebraico-cristiano stabilita dalla
Conferenza Episcopale italiana fu celebrata proprio in quella
Sala Baldini dal rabbino Elio Toaff e mons. Clemente Riva.
"Nel corso di questi anni noi abbiamo ricevuto dagli anziani
della Comunità un ricordo sostanziale di quanto accaduto e di
quanta solidale e coraggiosa attenzione fu riservata per le
famiglie di religione ebraica che vivevano in questo territorio.
Ora a noi il compito di consegnare alle nuove generazioni quanto
accaduto e che eventi di un passato così pieno di dolore non si
ripetano mai più", conclude don Davide Carbonaro.
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