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Evasione fiscale da 1,7 miliardi, 60 indagati. Perquisizioni della Finanza

Compiuta da un società di pulizie e vigilanza

Un danno per l'erario dello Stato che ammonta ad un miliardo e 700 milioni, un giro di fatture false da 400 milioni, una contabilità parallela che serviva per pagare mazzette a funzionari pubblici, 62 indagati che a vario titolo dovranno rispondere di associazione a delinquere, bancarotta fraudolenta, riciclaggio e reati tributari: dopo due anni di indagini, gli uomini del Nucleo di polizia valutaria della Guardia di Finanza, coordinati dalla procura di Roma, hanno chiuso un'inchiesta che ha consentito di portare alla luce una mega evasione fiscale.

L'operazione è scattata all'alba, con una settantina di finanzieri che hanno eseguito decine di perquisizioni in tutta Italia e il sequestro preventivo di un centinaio di milioni di beni tra i quali uffici, abitazioni, aziende, mandati fiduciari e oltre 100 rapporti bancari. Il gip del tribunale di Roma Valerio Savio non ha invece accolto le richieste di misure cautelari chieste dal procuratore aggiunto Nello Rossi e dai sostituti Paola Filippi e Mario Danivola, riguardanti una ventina di indagati, ritenendo che non sussistano i motivi per l'applicazione di misure restrittive. Al centro dell'indagine il gruppo 'Gesconet' - un Consorzio che si occupa di trasporto, facchinaggio, pulizie e vigilanza privata e che ha ottenuto appalti anche con la Camera dei Deputati - il suo titolare di fatto, Pierino Tulli e l'ex braccio di quest'ultimo Maurizio Ladaga.

Secondo l'accusa, l'organizzazione era specializzata in una "sistematica" evasione dei debiti tributari e per metterla in pratica utilizzava 250 tra società e cooperative. La truffa andava avanti almeno da 13 anni: le società degli indagati affidavano in subappalto a cooperative appositamente costituite, gli appalti che si aggiudicavano, sia da enti pubblici che da società private. A loro volta le cooperative, attraverso l'emissione di fatture false, giravano il denaro ricevuto ad altre cooperative, cosiddette 'finali', i cui conti venivano progressivamente svuotati attraverso dei prelievi in contante, che non erano giustificati da nessuna logica commerciale. Una volta private di tutti i beni, queste cooperative venivano messe in liquidazione e sostituite con altre. Con questo sistema, sostengono investigatori ed inquirenti, sia Tulli sia Ladaga si sono appropriati di 160 milioni che, invece, sarebbero dovuti finire nelle casse dello Stato in quanto soldi destinati alle imposte dovute dalle loro imprese.

Nel corso delle indagini, la Finanza ha accertato che sono state emesse dal 2001 fatture false per operazioni inesistenti per un totale di circa 400 milioni. Una volta prelevato dai conti delle cooperative finali, il denaro veniva spostato su conti correnti intestati a società di San Marino e del Lussemburgo per essere poi utilizzato per l'acquisto di immobili. Ma non solo: i finanzieri hanno scoperto anche una "contabilità parallela e riservata", soldi prelevati sempre dalle cooperative che servivano per pagare funzionari pubblici e ottenere così gli appalti. Le mazzette sarebbero state pagate tra il 2010 e il 2012 e sono ancora in corso le indagini per accertare se e chi sia stato corrotto. C'è in sostanza un ulteriore filone d'indagine, stralciato dall'inchiesta principale e affidato al sostituto Paolo Ielo, che riguarda una serie di tangenti che sarebbero state erogate a personaggi delle istituzioni per ottenere gli appalti.

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